Art. 19 Costituzione

Dispositivo

Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa [ 2, 3, 7, 20 ] in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto purché non si tratti di riti contrari al buon costume [ 8, 20, 21; c.p. 527-529 ].

Spiegazione dell’art. 19 costituzione

il diritto (la libertà religiosa) di cui all’art. 19 costituzione è assicurato « a tutti »; quindi non soltanto ai cittadini, ma anche agli stranieri e agli apolidi. Il testo della l. Sc. diceva anzi: « Ogni uomo ha diritto, ecc. »; e ciò conferma
l’intendimento discriminatore fra questo e l’art. 8.

Il testo del progetto, uguale nella prima parte al testo approvato, così concludeva: « purché non si tratti di principi o di riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume». L’on. Binni propose la soppressione di tutte queste parole, sottolineando che, a parte la sobrietà che deve avere la Costituzione, « non devesi portare neppure l’ombra di qualsiasi irrispettosità, di qualsiasi offesa per culti o religioni delle quali noi abbiamo il massimo rispetto… Quanto poi
all’ordine pubblico, questa formula mi pare ancor più pericolosa, più rischiosa, ricca di tentazioni per chi ha il potere e può servirsene per i suoi scopi particolari”».

L’on. Nobili Tito Oro si limitò a proporre la soppressione delle parole « principi » e « all’ordine pubblico ». Ed espose: « E da domandarsi chi sarà l’organo che dovrà decidere del concorso degli estremi per l’attuazione di queste eccezioni al diritto della libertà di culto. Non v’è dubbio che dovranno essere necessariamente gli organi di polizia; ma noi rimetteremo agli organi di polizia il decidere e il giudicare intorno ai principi di una fede religiosa? Ammetteremo che i principi di una fede religiosa, i quali si consustanziano con la fede stessa, possano costituire oggetto di esame da parte di elementi estranei a quella fede? ».

La Commissione non accettò la proposta Binni riguardo l’art. 19 costituzione e l’on. Ruini disse fra l’altro: « Vi possono essere riti contrari al buon costume – stravaganti, dice in un suo emendamento l’on. Nobile ~; si è accennato ai nudisti, ai tremolanti, alla setta russa degli eviratori, che predica il sacrificio di Origene. Vi saranno o no in Italia, e comunque deciderà volta per volta lo Stato se il buon costume sia o no offeso; ma non si può dare senz’altro via libera».

L’on. Laconi propose poi di sostituire le parole «all’ordine pubblico» contenute nell’art. 19 costituzione con «all’ordinamento giuridico ». Fra la Commissione e i presentatori di emendamenti si raggiunse un accordo, durante una sospensione della seduta del 12 aprile appositamente concessa. La formula concordata fu appunto quella dell’attuale articolo, nella quale le parole « principi » e « all’ordine pubblico » furono soppresse.

Con la soppressione della parola « principi » si è voluto, accogliendo la tesi dei proponenti, escludere ii giudizio di merito delle autorità dello Stato sulla rispondenza al buon costume dei principi delle varie religioni, fino a che questi principi rimangono tali e non si estrinsecano in atti esterni che siano, essi, contrari al buon costume. Ciò per quanto riguarda il diritto del singolo alla libertà di culto.

Poiché, per ciò che concerne le confessioni religiose in quanto organizzazioni, ogni statuto che contenesse principi contrari al buon costume dovrebbe considerarsi contrastante con l’ordinamento giuridico italiano a norma del secondo comma dell’art. 8. Anche con la soppressione delle parole «all’ordine pubblico» fu accolta la tesi del proponenti.

Fu ritenuto pericoloso inoltre porre qui, anziché nel terzo comma, le parole « all’ordinamento giuridico », perché – spiegò l’on. Ruini -: « Lo Stato, emanando norme legislative di volta in volta, limiterebbe la libertà dei culti ». Anche i riti contrari all’ordinamento giuridico dello Stato sono tuttavia ammessi in quanto estrinsecazione di un diritto individuale alla libertà del culto; che se fossero sanzionati nello statuto di una confessione religiosa cadrebbero nel divieto di cui al secondo comma dell’art. 8.

L’on. Labriola propose il seguente emendamento aggiuntivo: « Sono pienamente libere le opinioni e le organizzazioni dirette a dichiarare il pensiero laico o estraneo a credenze religiose »; e lamentò che non si fosse pensato a far cenno « della esistenza di organizzazioni dette del libero pensiero… Domando per i liberi pensatori lo stesso rispetto che abbiamo dichiarato per tutte le confessioni religiose ». La Commissione non si pronunciò sull’emendamento.

Resero dichiarazioni di voto gli on. Laconi, per il Gruppo comunista, e Calosso. Il primo convenne sulla sostanza, ma ritenne che non fosse necessaria una affermazione di questo genere, già contenuta d’altronde negli articoli 18 sulla libertà di associazione; 21 sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione; 33 nel quale è stabilito che l’arte e la scienza sono libere. L’on. Calosso ritenne invece opportuna l’affermazione proposta dall’on. Labriola, dopo le altre sulle confessioni religiose. L’Assemblea fu tuttavia dell’avviso dell’on. Laconi e non approvò l’emendamento.

Giurisprudenza sull’art. 19 costituzione

Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione, garantito dall’art. 19 costituzione, che dispone che tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Inoltre, la liberà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare. Da questi principi discende un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche a cui compete il governo del territorio: in positivo, in applicazione del principio di laicità, le Amministrazioni competenti devono prevedere e mettere a disposizione spazi pubblici per le attività religiose, mentre, in negativo, esso impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici.

T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. II, 10/08/2020, n.1557

Nel caso di conflitto genitoriale sull’educazione religiosa del minore, l’onere del giudice è quello di individuare la soluzione che in concreto realizzi il miglior interesse del fanciullo. Va, pertanto, autorizzata la partecipazione del figlio minore alle celebrazioni religiose dell’altro genitore, nonché a tutte le attività connesse, pur se ciò contrasti con i princìpi della religione dell’altro coniuge.

Tribunale Pesaro, 09/07/2020

Il principio della parità di trattamento delle confessioni religiose, sancito dagli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE e degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, impone che venga assicurata una forma di uguaglianza tra tutte le forme di religiosità, in essa compreso il credo ateo o agnostico, e la sua violazione integra una discriminazione vietata, che si verifica quando, nella comparazione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, è o sarebbe avvantaggiato rispetto all’altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall’autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata.

Cassazione civile sez. I, 17/04/2020, n.7893

Dottrina

Le nuove interrelazioni si muovono sullo sfondo dell’archetipo di Stato laico sociale in cui l’ordinamento italiano si cala a partire dalla metà del secolo scorso. Questo nuovo modello di Stato presenta sin da subito una forte impronta antropocentrica, che spinge in maniera decisa per la tutela di una pluralità di diritti e di libertà riconosciuti all’individuo in quanto tale. Tra questi rivestono particolare importanza proprio quelli connessi alla salute (art. 32 Cost.) ed alla religione (art. 19 costituzione), entrambi espressione dell’impostazione personalistica che caratterizza l’impianto costituzionale repubblicano. Il diritto alla salute si sviluppa su un duplice livello di garanzia: uno negativo o passivo, « che si risolve nella pretesa a che terzi si astengano da qualsiasi comportamento pregiudizievole, predisponendo mezzi inibitori, ripristinatori e risarcitori nel caso di lesioni della sfera di salute individuale », come accade per la tutela dell’integrità psico-fisica o della salubrità dell’ambiente. Un altro positivo o attivo, « a cui si ricollega la pretesa positiva dell’individuo alla esistenza ed utilizzabilità dei mezzi terapeutici necessari per la tutela della salute », vale a dire il diritto ad ottenere le prestazioni sanitarie e quello alle c.d. scelte terapeutiche.

La libertà religiosa (di cui all’art. 19 costituzione) presenta anch’essa una struttura polimorfa, che racchiude in sé le libertà di coscienza, di autodeterminazione religiosa, di manifestazione della propria fede o del proprio pensiero religioso, la libertà di culto, quella di propaganda e lo ius poenitendi. Ma soprattutto, in netta controtendenza rispetto alla concezione ottocentesca, viene intesa quale « valore di necessario completamento dell’essere umano », che attraverso l’esperienza religiosa può — se vuole e lo ritiene « utile » — sviluppare la propria personalità individuale. Ciò richiede allo Stato, soprattutto laico sociale, di lasciare o creare spazio per il pieno sviluppo di tale profilo individuale, anche in relazione alla salute.

Le interazioni che ne derivano sono numerose e possono essere suddivise in tre grandi gruppi. Il primo attiene ai casi in cui la religione si sostituisce alla medicina ufficiale, proponendosi come unica cura possibile al malessere fisico del fedele. È il caso dei santoni, dei guaritori, dei capi carismatici di nuovi movimenti religiosi o di frange autonome dei culti tradizionali, che tentano di fornire soluzioni del genere violando ripetutamente — ed a volte anche gravemente — le leggi civili, penali e sanitarie.

Il secondo racchiude le ipotesi in cui la religione impone al fedele dei comportamenti attivi capaci di incidere sulla sua salute o sulla sua integrità fisica. Tanto accade, ad esempio, con la circoncisione, ossia con quel rituale prescritto da svariate religioni e culture che consiste nella asportazione totale o parziale del prepuzio. Ad oggi nessuno dubita più della liceità giuridica di tale pratica, la cui invasività è stata calmierata dalla fissazione di alcune prescrizioni sanitarie da seguire, ma la sua pacifica accettazione non chiude l’argomento delle regole religiose o culturali capaci di incidere sulla salute dei membri della comunità religiosa o culturale che sia. Ancora oggi sono considerevoli i problemi giuridici posti da rituali come l’infibulazione, l’escissione, la clitoridectomia. Su di essi è intervenuto il legislatore italiano del 2006, adottando una disciplina che, se da un lato, persegue finalità di informazione, sensibilizzazione e repressione, dall’altro presenta ancora troppe lacune.

Il terzo ed ultimo gruppo riguarda le ipotesi in cui la religione influenza in negativo le scelte terapeutiche del paziente, che rifiuta alcuni trattamenti sanitari perché avversati dalla fede che professa. E proprio su questa tematica si appunta la presente ricerca, in quanto nei poco più di settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione si è registrato un intenso dibattito dottrinario sul riconoscimento o meno al paziente — e se sì, entro quali confini (anche temporali) — di un vero e proprio diritto di rifiutare le cure sanitarie sulla scorta delle proprie convinzioni religiose, filosofiche e morali.