Art. 20 Costituzione

Dispositivo

Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione [ c.c. 831 ] non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali [ 53 ] per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività [ 8, 19 ].

Spiegazione dell’art. 20 costituzione

All’art. 20 costituzione non furono presentati emendamenti in Assemblea, ed esso fu approvato senza discussione. Era stato deliberato dalla l. Sc. , su proposta del relatore on. Dossetti, il quale lo aveva illustrato rilevando che «questo articolo vuole affermare un concetto negativo, e cioè che il carattere ecclesiastico o lo scopo di culto non possano essere causa di un trattamento odioso a danno degli enti stessi. La norma si giustifica come esigenza particolare non solo degli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica, ma anche degli enti religiosi non appartenenti alla Chiesa cattolica, tant’è vero che essa è stata invocata da appartenenti a chiese non cattoliche. La personalità giuridica degli enti ecclesiastici può essere colpita da tutte le leggi restrittive in vigore per gli altri enti morali; ma in base a questo articolo non può essere colpita in modo speciale per il semplice fatto che si tratta di ente ecclesiastico ».

L’on. Cevolotto propose la seguente aggiunta all’art. 20 costituzione: « Tali limitazioni possono essere però sancite dalla legge quando l’ente e i suoi titolari siano sussidiati dallo Stato o da altri enti pubblici o godano esenzioni tributarie», osservando che «se lo Stato paga, può imporre delle limitazioni». Il relatore Dossetti rispose che la norma proposta dall’on. Cevolotto « non è in contraddizione con la norma posta nell’articolo in discussione, perché questo non riguarda le eventuali restrizioni o il diritto di intervento dello Stato là dove lo Stato dà una contropartita all’ente stesso, ma riguarda il principio della riconoscibilità, per cui si vuole assicurare che non vi siano esclusioni di riconoscibllltà fondate sulla caratteristica ecclesiastica e sullo scopo di culto ». L’on. Qevolotto rinunziò alla sua proposta aggiuntiva dichiarando di votare a favore dell’art. 20 costituzione, « tenendo però presenti i chiarimenti dati dall’on. Dossetti ».

L’on. Marchesi domandò se l’articolo non mirasse a stabilire «oasi ferme di proprietà» che « restino immuni da riforme legislative ». L’on. Dossetti confermò l’interpretazione restrittiva dell’articolo, facendo inoltre presente che, in base alla legge del 1885 sulla disciplina degli acquisti degli enti morali, questi non possono acquistare beni immobili mortis causa o per atto di donazione o per compravendita se non con l’autorizzazione governativa (ora mediante decreto presidenziale), la quale è un atto discrezionale che può essere dal Governo dato o rifiutato; il Governo ha quindi in mano un’arma per garantirsi che questi enti non si espandano eccessivamente. L’on, Grassi osservò poi che « attualmente gli enti ecclesiastici possono possedere e acquistare e che l’articolo proposto dall’on. Dossetti potrebbe anche essere superfluo, poiché la materia è già regolata dal Concordato: se mai, la norma può valere per gli enti religiosi non cattolici. L’unico inconveniente è che i beni religiosi sono sottratti alla successione e quindi, mentre gli altri patrimoni nel giro di poche generazioni fatalmente si disperdono, quelli degli enti ecclesiastici non si estinguono. D’altra parte la legge fissa al posto della tassa di successione quella di manomorta».

Giurisprudenza sull’art. 20 costituzione

In tema di tutela delle libertà personali, posto che il principio supremo di laicità dello Stato comporta non soltanto la libertà di coscienza degli atei e degli agnostici, ma anche il diritto di costoro di farne propaganda nelle forme che ritengano più opportune, col solo limite del vilipendio della fede altrui, la violazione del principio di parità di trattamento rispetto alle altre forme di religiosità integra una discriminazione vietata di tale diritto (nella specie, la giunta comunale aveva respinto l’istanza dell’associazione ricorrente di affissione di manifesti recanti la parola, a caratteri cubitali, “Dio”, con la “D” a stampatello barrata da una crocetta e le successive lettere “io” in corsivo, e sotto la dicitura, a caratteri più piccoli, “10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c’è l’Uaar al loro fianco”).

Cassazione civile sez. I, 17/04/2020, n.7893

Ai sensi degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost. e dell’art. 1 del Protocollo addizionale al Concordato tra Stato e Chiesa del 1984, dai quali si desume l’esistenza nell’ordinamento del “principio supremo di laicità” dello Stato, nonché ai sensi dell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, deve essere garantita la pari libertà di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente; dal riconoscimento del diritto di “libertà di coscienza” anche agli atei o agnostici, discende il diritto di questi ultimi di farne propaganda nelle forme che ritengano più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell’art. 19 Cost.; il diritto di propaganda e di diffusione del proprio credo religioso non deve tradursi nel vilipendio della fede da altri professata, secondo un accertamento che il giudice di merito è tenuto ad effettuare con rigorosa valutazione delle modalità con le quali si esplica la propaganda o la diffusione, denegandole solo quando si traducano in un’aggressione o in una denigrazione della diversa fede da altri professata; il principio della parità di trattamento, sancito dagli artt. 1 e 2 della Direttiva n. 78/2000 e dagli artt. 43 e 44 d.lg. n. 286 del 1998, impone che venga assicurata una forma di uguaglianza tra tutte le forme di religiosità, in esse compreso il credo ateo o agnostico, e la sua violazione integra la discriminazione vietata, che si verifica quando, nella comparazione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, è, o sarebbe avvantaggiato rispetto all’altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall’autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata.

Cassazione civile sez. I, 17/04/2020, n.7893

Dottrina

In Italia la questione dei simboli religiosi in rapporto alla libertà religiosa viene oggi a emergere per due temi in particolare:

a) la presenza del crocifisso, esposto permanentemente in alcuni uffici pubblici;

b) l’uso individuale, da parte di donne, del burqa o del niqab, cioè del velo integrale islamico negli spazi pubblici (si sottolinea che quanto qui segue non riguarda le coperture del capo che lasciano visibile il volto).

Sono due questioni distinte nei presupposti, anche se entrambe riguardano simboli religiosi e la libertà religiosa

Vanno considerate alcune differenze intrinseche:

• Il crocifisso è un simbolo diretto, oggettivo e immobile di una confessione religiosa;

• Il velo integrale femminile è un simbolo indiretto e mobile, un segno individuale femminile particolarmente forte e per molti altri allarmante di appartenenza a una confessione religiosa: non di tutte le fedeli, ma solo di alcune tradizioni locali;

• Il crocifisso connota permanentemente e per tutti i presenti uno spazio pubblico e non è collegato alla persona;

• Il velo integrale connota un’individualità davanti a tutti e solo al momento della presenza della donna che lo veste;

• Il crocifisso non ostacola la riconoscibilità e l’identificazione individuale;

• Il velo integrale ha la voluta caratteristica nella non riconoscibilità del volto della donna. Nel caso del burqa ha anche l’effetto di ridurre l’angolo di orizzonte visivo e così la sua autonomia motoria;

• Il crocifisso si riferisce — anche se non esclusivamente — alla confessione cattolica, cioè alla confessione religiosa tradizionale e assolutamente prevalente nella popolazione italiana;

• Il velo integrale si riferisce ad una tradizione particolare di una più ampia confessione religiosa che in Italia non ha una radicata presenza tradizionale, anche se è praticata da un ormai rilevante numero di persone immigrate.

Si usa convenire che entrambi gli oggetti hanno a che fare con la libertà religiosa, manifestazione particolare della libertà di opinione. La questione del velo integrale femminile coinvolge però anche altri valori generali, diversi dalla libertà di opinione.

Questi temi toccano anche alcuni principi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In particolare, il principio dell’art. 9 sul diritto inviolabile alla « libertà di pensiero, di coscienza e di religione »:

« Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. // La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui ».

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che si è formata in casi di particolare rilievo riguardanti essenzialmente la Turchia, l’Italia e la Francia, tende a seguire la pratica del margine di apprezzamento: una linea di self restraint per lasciare le valutazioni essenziali ai singoli Stati. Le diverse sensibilità in materia toccano convinzioni interiori e localmente diffuse, spesso non riducibili a un’unitaria dimensione giuridica: difficilmente possono essere condotte a un modello uniforme e valevole per l’intera platea. Nondimeno, anche nel lasciare agli Stati la valutazione, la Corte evoca elementi ricorrenti nella sua giurisprudenza, specialmente in ordine al principio di proporzionalità. […]

Giuseppe Severini