Art. 27 Costituzione

Dispositivo

  1. La responsabilità penale è personale [ c.p. 40 ss. ].
  2. L’imputato [ c.p.p. 60 ] non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva [ c.p.p. 648 ss. ].
  3. Le pene [ c.p. 17 ss. ] non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tenere tendere alla rieducazione del condannato [ 13 ].
  4. Non è ammessa la pena di morte [, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra ].

Spiegazione dell’art. 27 costituzione

« Personale » (primo comma dell’art. 27 costituzione) significa per fatto proprio, essendosi voluto dalla I. Sc. escludere la responsabilità penale per fatto altrui. Parrebbe che la l. Sc. , approvando la formula, abbia voluto affermare tassativamente l’elemento soggettivistico della responsabilità penale ed escludere la responsabilità penale obiettiva per fatto altrui in via generale e quindi anche in materia contravvenzionale, dal momento che la questione fu sollevata dall’on. Cevolotto. 

Un’interpretazione restrittiva della norma dava però il presidente della l. Sc. , il quale ne sottolineava il significato particolarmente politico dopo i passati episodi di persecuzione dei familiari degli accusati politici; l’ on. Corsanego concordava, citando l’esempio delle rappresaglie compiute durante la guerra su persone estranee al fatto e sui loro beni. Si ricorda inoltre che durante la discussione dell’art. 13 l’Assemblea approvò la seguente formulazione: «E assolutamente vietato privare della libertà personale chiunque sia estraneo al fatto per il quale l’autorità di polizia procede».

Come è detto nell’art. 13, la formula, soppressa durante il coordinamento finale, conserva il suo valore di integrazione e di interpretazione del primo comma dell’articolo in esame. Con il quale, inoltre, si intende proibire non soltanto le restrizioni della libertà personale, ma anche ogni altra conseguenza di natura penalistica a carico di chi sia estraneo al fatto commesso. In Assemblea gli on. Giovanni Leone e Bettiol proposero un’esplicazione nel senso anzidetto: « La responsabilità penale è solo per fatto personale », intendendo appunto escludere quella per fatto altrui; ma poi non insistettero, avendo l’on. Tupini considerato non necessaria la specificazione, dato che la Commissione aveva approvato il primo comma proprio con l’intento voluto dai proponenti l’emendamento. Si ricorda infine che la l. Sc. , pur approvando lo spirito della proposta, ritenne superfluo che si ponesse: « Non possono irrogarsi sanzioni collettive ». La l. Sc. approvò, per il secondo comma, la seguente formula: « L’innocenza dell’imputato è presunta fino alla condanna definitiva», proposta dall’on. Mancini, nell’intendimento di ripresentare il concetto accolto nel Codice penale del 1913, accantonato poi dal Codice del 1930. Il Comitato di redazione, pur concordando nello spirito della norma, ritenne opportuno adottare una forma meno drastica e approvò: « L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva». In Assemblea l’on. Rescigno propose un ulteriore discostamento dal concetto del Codice del 1913: la presunzione di innocenza dell’imputato fino alla prima condanna, e di colpevolezza invece dalla prima condanna fino a quella definitiva; mentre l’on. Crispo propose la soppressione del comma, perché « l’imputato sarà innocente o colpevole secondo che il giudice lo dichiarerà innocente o colpevole ». La Commissione mantenne il suo testo, che fu approvato dall’Assemblea. L’ordine dei due concetti espressi nel terzo comma era invertito nel testo del progetto: « Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità ». Agli on. Crispo, Giovanni Leone e Bettiol questa formula parve tale da porre decisamente in ombra ogni altro carattere e funzione della pena (scuola classica del diritto penale) di fronte all’esigenza della rieducazione (scuola positiva del diritto penale); e il primo propose la soppressione delle parole sulla rieducazione; i secondi presentarono questo emendamento sostitutivo: « Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino la rieducazione morale del condannato». Svolgendo questo emendamento, l’on. Leone dichiarò di ritenere che la Commissione non avesse voluto prendere posizione nei confronti del « secolare problema della funzione della pena » né quindi « stabilire che il fine principale della pena sia la rieducazione »; egli credette di individuare il pensiero della Commissione attribuendo alla formula lo scopo di « individuare un fine collaterale nella esecuzione della pena, il fine, cioè, di non ostacolare il processo di rieducazione del reo»; e pensò che la sua proposizione fosse più idonea a rendere questo concetto. Ma l’on. Tupini, a nome della Commissione, concordò solo in parte con la tesi dell’on. Leone: « Si sono proiettate in queste discussioni le preoccupazioni che hanno riferimento alle scuole filosofiche. V’è la preoccupazione di chi è più ligio alla scuola classica, l’altra di chi è più ligio alla scuola positiva, e il timore che la nostra formula aderisca più all’una che all’altra e viceversa ». L’on. Tupini disse che la Commissione non intendeva affatto prendere posizione in favore dell’una o dell’altra scuola; ma aggiunse che « effettivamente la società non deve rinunciare ad ogni sforzo, ad ogni mezzo affinché colui che è caduto nelle maglie della giustizia, che deve essere giudicato, che deve essere anche condannato, dopo la condanna possa offrire delle possibilità di rieducazione». L’altro firmatario dell’emendamento, l’on. Bettiol, replicando, si disse d’accordo sull’opportunità di evitare di entrare nell’atmosfera di una determinata scuola e sostenne che era più idonea a questo scopo la formula emendativa. Anche l’on. Moro fu di questo parere e giudicò che la formula del progetto poteva essere intesa dal futuro legislatore come « fondamento di una pretesa a orientare la legislazione penale italiana in modo conforme ai postulati della scuola positiva » e che l’esigenza, fondamentale sì, ma non unica, della rieducazione del condannato, era sodisfatta pienamente con l’emendamento Leone-Bettiol. La maggioranza dell’Assemblea si pronunziò per la formula della Commissione, Tuttavia, durante il coordinamento finale, il Comitato di redazione ritenne opportuno attenuare l’apparenza positivistica della dizione invertendo nel comma in esame l’ordine dei concetti, vale a dire ponendo prima il divieto dei trattamenti inumani e poi l’esigenza della rieducazione del condannato. L’ultimo comma fu approvato dall’Assemblea senza osservazioni.

Giurisprudenza sull’art. 27 costituzione

Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., come sostituito dall’art. 3 l. 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, comma 2, c.p., sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p. Il divieto inderogabile di prevalenza dell’attenuante in esame non risulta compatibile con il principio costituzionale di determinazione di una pena proporzionata. La sproporzione della pena rispetto alla rimproverabilità del fatto posto in essere, globalmente considerato, conseguente al divieto di prevalenza censurato, determina un trattamento sanzionatorio che impedisce alla pena di esplicare la propria funzione rieducativa.

Corte Costituzionale, 31/03/2021, n.55

Dottrina

Il legislatore italiano, lungi dall’aver considerato il procedimento d’appello come novum iudicium, lo ha collocato nella categoria dei controlli, con la possibilità di una verifica critica su iniziativa di parte, della decisione di cui si presuppone l’esattezza. Trattasi, in definitiva, di un giudizio di legalità e, ben può dirsi, di un sindacato sull’attività del giudice nel quale l’organo superiore “custodit ipsos custodes”.In tali esatti termini, con la legge n. 103 del 2017, ossia la riforma Orlando, il legislatore ha cercato di circoscrivere la dichiarazione di appello, imponendo che nella stessa siano ben indicati, a pena di inammissibilità, non solo i motivi di doglianza, ma ogni singola ragione che li sorregge, in fatto e in diritto; non solo le richieste ma anche le ragioni sulle quali esse si fondano ed, in maniera particolare, le prove delle quali si deduca l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa valutazione.E mette conto di rilevare, a questo proposito, che proprio la sentenza della Corte EDU, Sez. I, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia, richiamata dalle Sezioni Unite Galtelli per confermare la piena compatibilità delle scelte adottate in tema di estensione della aspecificità estrinseca anche ai motivi di appello, ribadisce « che il legislatore, nell’ambito del suo margine di apprezzamento, può imporre requisiti formali anche rigorosi per l’ammissibilità dell’impugnazione, a condizione che questi rispettino il principio di proporzionalità, ovvero: non siano tali da vanificare il diritto a una pronuncia di merito attraverso l’imposizione di eccessivi formalismi, siano chiari e prevedibili, non impongano eccessivi oneri alla parte impugnante per l’esercizio del diritto di difesa ».

Stella Romano