Art. 29 costituzione

Dispositivo dell’art. 29 costituzione

  1. La Repubblica riconosce i diritti alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio [ c.c. 79 ss. ].
  2. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi [ 3 ], con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare [ c.c. 143-158 ].

Spiegazione dell’art. 29 costituzione

Dopo la discussione generale su questo Titolo, prima di passare a quella degli articoli, l’Assemblea discusse in merito al contenuto normativo delle disposizioni contenute nel Titolo stesso e alla loro incidenza sulla legislazione preesistente. Prevalse la tesi, sostenuta anche dalla Commissione, di conservare al corpo della Costituzione le norme del Titolo, di fronte a quella di trasferirle in un preambolo.

Per la tesi prevalsa resero dichiarazioni gli on. Tupini, a nome della Commissione, e Mortati, a nome del Gruppo democratico cristiano. L’on. Tupini disse: « Il nostro progetto consta di due elementi fondamentali: uno di carattere normativo assoluto, l’altro di direttive al futuro legislatore perché vi si conformi e vi si adegui… Noi facciamo una Costituzione che impegna la legge futura ma che non è impegnata da quella presente. Difficoltà ci potranno essere; le affronteremo… Si potrà fare anche una disposizione transitoria, ma il principio fondamentale che deve essere tenuto presente è questo: noi non siamo impegnati dalla legge presente; noi impegniamo la legge futura». L’on. Mortati dichiarò: «è ovvio che quando una nuova Costituzione entra in vigore, v’è una parte di essa, e precisamente le disposizioni transitorie, che ha come scopo di evitare disarmonie nel sistema. Ma anche se tali disposizioni non vi fossero, varrebbero i principi generali di interpretazione per cui, ad esempio, le norme dell’attuale Codice civile che siano in contrasto con precise disposizioni della nuova Costituzione cadrebbero automaticamente; mentre altre, che fossero compatibili, seppure non in perfetta armonia, con disposizioni costituzionali di indole direttiva, rimarrebbero, in attesa delle future riforme; e intanto si imporrebbe all’interprete l’adattamento delle medesime al nuovo spirito immesso nell’ordinamento attraverso la Costituzione». Il testo della Commissione poneva al primo comma, dopo la parola « matrimonio », l’altra « indissolubile ». Nella seduta del 13 aprile, l’on. De Vita pose il problema se, una volta approvato l’art. 7, del quale l’Assemblea stava allora discutendo, sarebbe rimasto conservato alla sovranità dello Stato il dettar norme in materia matrimoniale, dal momento che con l’articolo 34 del Concordato lo Stato stesso si era impegnato a riconoscere per tale materia la disciplina del diritto canonico. L’on. De Vita infatti chiedeva: « Deve lo Stato disinteressarsi di tutta questa materia che la Chiesa ritiene di sua esclusiva competenza ? ». Essendo prevalsa durante la discussione dell’art. 7 la tesi per cui la formula di codesto articolo non equivale a inserimento delle norme dei Patti Lateranensi nella Costituzione, nessuna obiezione è stata formalmente sollevata durante la discussione, generale e sugli articoli, del Titolo II sul potere dell’Assemblea Costituente di deliberare in materia matrimoniale. Dicesi normalmente sollevata, intendendosi con ciò registrare che non vi fu mai alcuna richiesta di preclusione. Tuttavia l’on. Umberto Merlin, parlando della indissolubilità del matrimonio, disse: « Anche per poter dimostrare che questa discussione può essere un tantino superflua, io ricordo a coloro che hanno votato l’articolo 7 della nostra Costituzione che essi sarebbero in contrasto con se stessi se non volessero votare l’articolo così come è concepito, perché per l’art. 7 «i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi ». Egli diede lettura del primo comma dell’art. 34 del Concordato e soggiunse: « Dunque la materia è regolata dal diritto canonico ». Questa tesi non appare tuttavia conciliabile con le precisazioni fatte a nome del Gruppo democristiano da altri deputati {cfr. note all’art. 7) i quali sostennero la tesi (di maggioranza) che approvare l’art. 7 non significava includere nella Costituzione le norme dei Patti Lateranensi. Gli on. Calamandrei e Cevolotto, che durante la discussione dell’art. 7 sostennero l’opposta tesi (di minoranza), dichiararono: il primo che l’art. 29 costituzione « riguarda il matrimonio puramente civile, perché l’indissolubilità del matrimonio religioso voi l’avete già garantita con l’approvazione dell’art. 7 »; e il secondo che poiché « con l’art. 7 il Concordato è richiamato e cristallizzato nella Costituzione… il matrimonio cattolico è fuori discussione; in base alla Carta costituzionale l’indissolubilità è consacrata, è decisa, è sicura». Mentre invece l’on. Maria Maddalena Rossi, parlando a nome del Gruppo comunista, che concorse a determinare la maggioranza sull’art. 7, dichiarò: « Noi siamo contrari a inserire il principio della indissolubilità del matrimonio nella Costituzione. Inserire questo principio nella Costituzione significa rifiutare nettamente di risolvere determinati casi che il legislatore dovrà invece prendere in esame ». E Foratrice portò gli esempi dei reduci che al ritorno in patria hanno trovato l’onore familiare distrutto e della condanna all’ergastolo o a pene infamanti di uno dei coniugi, aggiungendo: « Noi non.poniamo la questione del divorzio… Con l’accettare l’art. 7, noi pensiamo di avere già dato la tranquillità a coloro che ritengono che il matrimonio debba essere indissolubile, perché essi ne traggono la garanzia dal diritto canonico. Dal punto di vista religioso, noi abbiamo dato ormai tutte le garanzie e non abbiamo alcun timore di essere fraintesi. Con la maggiore tranquillità noi possiamo affrontare oggi questo problema da altro punto di vista, dai punto di vista politico e sociale ». Di fronte al dato di fatto che l’Assemblea ha discusso e ha votato sul principio della indissolubilità del matrimonio senza che sia stata da alcuno opposta la preclusione del « già votato», non può non trarsi la conseguenza che il costituente non si è sentito vincolato dalla precedente votazione sull’art. 7. Non pare tuttavia che la votazione favorevole alla non costituzionalizzazione del principio della indissolubilità del matrimonio debba essere interpretata come volontà esplicitamente abrogatrice della relativa disposizione del diritto canonico, acquisita al diritto positivo italiano mercè l’art. 34 del Concordato e, d’altra parte, delle norme dettate in materia dal Codice civile. Il significato da attribuirsi alla votazione in rapporto alla portata dell’art. 7 non può che essere, conformemente alla tesi di maggioranza che sarà in appresso documentata, quello di una eccezione, quanto alla indissolubilità del matrimonio, alla norma strumentale e di produzione giuridica per cui la modificazione unilaterale di una disposizione contenuta nei Patti Lateranensi può avvenire soltanto con la procedura di revisione costituzionale di cui all’art. 138 della Costituzione; nel senso, cioè, che a una modificazione che scalfisca il principio generale della indissolubilità del matrimonio potrà provvedere il legislatore con la normale procedura di formazione delle leggi. In sottocommissione i relatori Corsanego e Leonilde lotti non si trovarono concordi circa l’inserimento nella Costituzione del principio della indissolubilità del matrimonio. L’on. lotti si dichiarò contraria, aggiungendo di non esserlo « a fissare tale principio nella legge ordinaria ». L’on. Corsanego dichiarò invece di non ritenere «che si possa tacere su questo punto fondamentale, perché in tal modo si lascerebbe aperta la via al legislatore di potere indifferentemente pronunciarsi per la indissolubilità del matrimonio o per il divorzio», impostando così con esattezza i termini del problema che doveva poi essere tanto a lungo discusso in Assemblea. L’on. Togliatti precisò, a nome degli altri deputati del suo Gruppo, di « non ritenere opportuno sollevare il problema del divorzio »; ma chiese che non si volesse « insistere nell’inserire nella Costituzione il principio della indissolubilità del matrimonio »; una dichiarazione analoga fece a nome del Gruppo socialista l’on. Basso; l’on. La Pira dichiarò invece di « non potere accettare una qualunque formula che permetta al futuro legislatore di introdurre il divorzio nella legislazione italiana ». In Assemblea si ebbero, per la tesi di maggioranza, le seguenti dichiarazioni: Crispo; « Quanto alla indissolubilità del matrimonio, io ritengo che il problema non costituisca materia costituzionale… ma materia di Codice civile»; Cevolotto (Dem. lav.): « Non è materia di Costituzione»; Ruggiero (P. S. L. I.): « Non possiamo impegnarci per le generazioni venture… Non possiamo consacrare questo principio della indissolubilità del matrimonio nella Carta costituzionale »; Nitti (U. D. N.): « Io non sono mai stato per l’Italia tra i sostenitori del divorzio. Ma si può in una Costituzione vietarlo ? E quale paese serio ha fatto una cosa simile? »; Sardiello (P. R. I.): «Perché questo tentativo… di spostare dalla legge ordinarla, dove ha la sua sede, alla Carta costituzionale l’affermazione del principio della indissolubilità matrimoniale? Perché questo privilegio a un principio privatistico? »; Maria Maddalena Rossi (P. C. I.): « Noi siamo contrari a inserire il principio della indissolubilità del matrimonio nella Costituzione… Non è materia di Costituzione ma di legislazione civile», L’on. Corsanego (D. C ) , rispondendo a nome della Commissione, ammise che quello del divorzio non è un argomento attuale e che soprattutto non è sentito dalle classi lavoratrici; ma soggiunse che in Italia vi sono «alcune classi… di uomini oziosi», che desiderano il divorzio, e ricordò che a Roma è nato una specie di comitato divorzista. E più oltre: « Non è vero che noi chiediamo di introdurre l’indissolubilità del matrimonio nella Carta costituzionale per puri motivi religiosi; lo chiediamo anche per motivi civili, per un criterio sociale, perché vogliamo l’indissolubilità del matrimonio per tutti ». Riconobbe i casi pietosi: « l’ergastolano, i reduci, che effettivamente meritano una seria considerazione. Ma non si è posto mente che la risoluzione di qualche caso singolo sarebbe talmente pregiudizievole per quel bene comune che deve essere sempre presente agli uomini e al legislatore… Sono infiniti 1 casi della vita in cui il bene comune prevale sulla cosi detta felicità dell’individuo ». Le citate dichiarazioni confermano l’impostazione del problema: da un lato la tesi di minoranza, sostenuta anche dalla Commissione, per una dichiarazione in via generale di indissolubilità del matrimonio da porsi nella Costituzione a garanzia della stabilità dell’istituto della famiglia e per sbarrare la via a quello che l’on, Corsanego chiamò « tarlo sociale », il divorzio; dall’altro lato la tesi di maggioranza, secondo la quale la questione del divorzio non è affatto attuale in Italia (nessuno dei deputati intervenuti nella discussione prese posizione in favore del divorzio), per cui mancano i presupposti politici per giustificare un errore di impostazione giuridica quale l’inserimento nella Costituzione del principio della indissolubilità matrimoniale che rientra nella materia legislativa, sicché non devono essere posti vincoli, in merito, al normale potere legislativo, soprattutto in considerazione delle eccezioni che il legislatore futuro potesse ritenere necessario introdurre al principio tradizionalmente italiano e cattolico della indissolubilità, per taluni casi meritevoli di particolare considerazione. Al momento della votazione non si ebbero dichiarazioni di voto, poiché si votò a scrutinio segreto. L’emendamento dell’on. Grilli, per la soppressione della parola « indissolubile » dopo « matrimonio » contenuta nell’art. 29 costituzione, fu approvato con 194 voti favorevoli e 191 contrari. L’espressione « società naturale » fu molto discussa in quanto considerata da alcuni come semplicemente definitoria. Già in sottocommissione l’on. Togliatti aveva parlato di « definizione astratta», mentre la relatrice lotti non vi aveva aderito considerandola « una dichiarazione di principio di una posizione ideologica ». L’on. Corsanego, relatore, aveva proposto: « Lo Stato riconosce la famiglia come unità (o istituzione) naturale e fondamentale della società », spiegando l opportunità, dopo l’affermazione dei diritti della persona umana (diritti naturali: art. 2), di quella dei diritti della comunità familiare, ponendo in evidenza « la preesistenza del diritto originario e imprescrittibile che ha la famiglia per la sua costituzione, finalità e difesa »; e aggiungendo che « lo Stato non crea questo diritto che è preesistente, ma lo riconosce, lo tutela e lo difende». La formula « società naturale» fu approvata dalla l. Sc. su proposta Tupini-Corsanego, per la quale si ebbero le seguenti dichiarazioni di voto per la maggioranza: Moro: « Dichiarando che la famiglia è una società naturale si intende stabilire che la famiglia ha una sua sfera di ordinamento autonomo nei confronti dello Stato, il quale, quando interviene, si trova di fronte a una realtà che non può menomare né mutare »; La Pira: « Con l’espressione società naturale si intende un ordinamento di diritto naturale che esige una costituzione e una finalità secondo il tipo della organizzazione familiare ». Anche in Assemblea coloro che criticarono la formula lo fecero perché le attribuirono una portata meramente definitoria. L’on. Ruggiero rilevò che la Costituzione non doveva dare definizioni degli istituti e che il progetto non ne dava tranne che per la famiglia. Al che l’on. Moro interruppe osservando: « Non è una definizione, è una determinazione di limiti »: parole che riproducono con brevità ed esattezza il pensiero della maggioranza dell’Assemblea, che volle mantenere « società naturale ». La formula è infatti diretta a porre un limite tra la sfera di autonomia della famiglia e il potere di intervento dello Stato, che dovrà rispettare l’assetto naturale e tradizionale della famiglia stessa. La priorità riconosciuta ai genitori nel diritto e nel dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, sancita nel successivo art. 30, è una diretta conseguenza del principio approvato. Sul quale concordò una notevole maggioranza dell’Assemblea ancorché non a tutti piacesse la formula « società naturale ». Così come all’art. 2 per i « diritti inviolabili dell’uomo », furono proposte molte varianti: nucleo naturale, originario e fondamentale della società (Badini-Confalonieri); società di diritto naturale (Bosco-Lucarelli); comunità originaria, proposta dall’on. Condorelli, il quale osservò che la famiglia non è una società ma è una comunità, « in quanto la società ha una base volontaria o contrattuale; la comunità invece ha una propria base naturale… La famiglia, nel suo ordinamento giuridico, non è soggetto di diritto… non è un ente giuridico… Il mio emendamento non si sposta affatto dal pensiero della Commissione ma vuole essere soltanto una precisazione tecnica». A queste considerazioni aderì l’on. Grassi ribadendo che « la famiglia non è una persona giuridica; quindi essa non ha suoi diritti. Vi sono coloro che la compongono che hanno delle posizioni giuridiche per le quali v’è uno status familiae: non di più». Va tuttavia considerato che la dizione «società naturale» non equivale, nell’intento dell’Assemblea, a riconoscimento di personalità giuridica. A nome della Commissione l’on. Tupini volle dissipare ogni dubbio considerando che tutte le modificazioni proposte fossero sufficientemente comprese e sodisfatte nella formula della Commissione: « società » equivale a « comunità »; e « naturale » equivale a «originario» e «di diritto naturale». « Quello che importa di affermare (aveva precedentemente chiarito il relatore on. Corsanego) è di affermare nella Carta costituzionale che lo Stato non crea i diritti della famiglia ma li riconosce… perché la famiglia ha dei diritti originari, preesistenti, e lo Stato non deve fare altro che dar loro l’efficace protezione giuridica»; per ciò che riguarda la famiglia «il legislatore non può il libito far licito in sua legge. L’on. Mortati, a nome del Gruppo democristiano, dichiarò che « la definizione della famiglia come società naturale, se se ne analizzi il significato, rivela il suo carattere normativo. Con essa si vuole infatti assegnare all’istituto familiare una sua autonomia originaria, destinata a circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua regolamentazione. 

Anche il secondo comma diede luogo a disquisizioni giuridiche. Alla affermazione della eguaglianza morale e giuridica dei coniugi segue la relativizzazione dei limiti stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare; e con la parola limiti, riferita alla eguaglianza, si è voluto espressamente sottolineare la necessità di una gerarchia nell’ordinamento familiare, per la quale il marito va considerato, rispetto alla moglie, come prìmus inter pares. L’on. Riccio ammise l’eguaglianza giuridica in rapporto agli obblighi dell’assistenza, della fedeltà e della coabitazione, ma dubitò che l’affermazione del principio potesse vulnerare « quel concetto di ordinamento gerarchico che è insito in ogni organismo e che, quindi, è proprio della famiglia », per il quale, secondo gli esempi che egli diede, il marito è titolare del domicilio e della patria potestà. L’on. Riccio aggiunse di non comprendere che cosa significasse la seconda parte della norma, sui limiti stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare; al che l’on. Tupini, a nome della Commissione, diede una risposta immediata, la quale rispecchia- con esattezza il pensiero della maggioranza: « corrisponde a quella preoccupazione che giustamente lei ha espresso poc’anzi circa il pericolo che non vi sia almeno un primus inter pares ». Il relatore Corsanego diede poi la seguente illustrazione: « L articolo 29 costituzione riecheggia le più legittime aspirazioni moderne della donna; devono essere abrogati per sempre gli istituti, come l’autorizzazione maritale, che ponevano la donna maritata in una condizione inferiore e ne facevano una perpetua minorenne; noi vogliamo affermare il valore della madre nella famiglia come centro dell’unità; nei casi di premorienza del marito, la donna accentra in se la patria potestà »; e aggiunse, quanto alla seconda parte della norma: « Noi intendiamo rimandare alla legge tutte le norme con le quali, regolando l’esercizio della patria potestà, non venga sconvolta la naturale gerarchia della famiglia dove, di regola, il padre deve condividere con la madre diritti e obblighi… Ma ci vuole pure qualcuno nella famiglia che dia il cognome, che scelga il domicilio, che abbia il diritto di rappresentanza, che amministri i beni dei minori».

Giurisprudenza sull’art. 20 costituzione

Il danno da perdita del rapporto parentale rappresenta una particolare ipotesi di danno non patrimoniale, derivante dalla lesione del diritto all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2,29 e 30 della Costituzione. Tale pregiudizio consiste non solo nella perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, nonché nella sofferenza interiore derivante dal venir meno del rapporto. Tale danno, al pari del danno non patrimoniale in genere, deve essere considerato nel suo complesso e la liquidazione dovrà essere unitaria, sì da ricomprendere ogni pregiudizio ad esso ricollegabile. In particolare, trattandosi di vittime secondarie, al fine di adeguatamente risarcire la lesione del rapporto parentale andranno tenute in considerazione le circostanze del sinistro, la sofferenza per la tragica perdita del familiare, l’età della vittima, nonché quella degli attori, il grado di parentela e l’intensità del legame tra la vittima e ciascun prossimo congiunto.

Tribunale Lecco sez. II, 26/03/2021, n.171

L’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge ha natura assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto non a conseguire l’autosufficienza economica del richiedente sulla base di un parametro astratto, bensì un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella vita familiare in concreto, tenendo conto in particolare delle aspettative professionali sacrificate, fermo restando che la funzione equilibratrice non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

Cassazione civile sez. I, 05/05/2021, n.11790

Dottrina

Non sarebbe tuttavia corretto enfatizzare esclusivamente le ripercussioni negative della mancata piena attuazione del principio di parità di genere a ridosso della svolta costituzionale. Guardando l’evoluzione con gli occhi della modernità, infatti, può riconoscersi che la severità della valutazione complessiva va temperata tenendo conto delle potenzialità virtuose del gradualismo delle riforme, che (come già si è accennato) ha agevolato la formazione dell’humus culturale e giuridico senza il quale le previsioni più recenti — e quelle future — non riuscirebbero a radicarsi. Oggi i tempi sono maturi perché la parità di genere sia concepita come criterio guida a tutto tondo nell’azione istituzionale, in una nuova stagione dell’applicazione dell’uguaglianza senza (irragionevoli) distinzioni in base al sesso. In passato l’elaborazione dottrinale non ha forse saputo in questo campo svolgere appieno il proprio ruolo di stimolo per i legislatori, la giurisprudenza e le autorità amministrative; attualmente, proprio la scienza giuridica deve assumersi la responsabilità di produrre e disseminare contributi, orientati a ispirare e accompagnare l’adozione di prassi applicative più conformi alla realizzazione del principio.

Anna Simonati

La questione dell’attribuzione del cognome ai figli non ha trovato definitiva risposta nella legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 e nei successivi atti legislativi. Certamente, alla luce del principio dell’uguaglianza tra i coniugi, è un problema che ha assunto un’importanza pratica notevole. La prevalenza del patronimico già da lungo tempo ha suscitato l’interesse della dottrina, che ne ha evidenziato il contrasto sicuramente con l’art. 3 Cost. , e di più per certo con l’art. 29,2º comma, Cost., essendo un limite all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La giurisprudenza di legittimità, da par suo, ha considerato la prevalenza del cognome paterno in contrasto con l’art. 117,1º comma, Cost. .

Cristiano Cicero